Provate ad immaginare questa scena e a rispondere alla seguente domanda cercando di essere il più sinceri possibile con voi stessi: assistendo ad un incidente, ad un borseggio o ad un uomo in atteggiamenti aggressivi nei confronti di una donna, accorrereste immediatamente in soccorso della vittima se ci fossero altre persone – oltre a voi – sulla scena, non agireste affatto, oppure interverreste a prescindere dal numero di individui presenti?
Da un punto di vista psicologico la risposta appare piuttosto scontata: minore è il numero dei soggetti presenti sulla scena dell’incidente, maggiore sarà la possibilità che qualcuno intervenga in favore del/della malcapitato/a. Viceversa, maggiore sarà il numero delle persone che assistono all’evento, minore sarà la probabilità che qualcuno intervenga. Ciò è dovuto ad un curiosissimo ed affascinante fenomeno socio-psicologico che prende il nome di “effetto spettatore”, anche chiamato “apatia dello spettatore”, “effetto testimone” o “bystander effect”.
A tal proposito, gli studi riguardanti l'”effetto spettatore” presero il via negli anni 50 del ‘900, quando lo psicologo Solomon Asch ipotizzò che le nostre azioni e percezioni di ciò che ci circonda potessero modificarsi in presenza di altre persone. Tuttavia, fu a seguito di un episodio di cronaca nera consumatosi nel 1964 a New York, negli USA, che l’interesse degli psicologi per tale fenomeno crebbe enormemente. Stiamo parlando dell’efferato omicidio di Catherine “Kitty” Genovese.
La ragazza fu pugnalata alle spalle da un uomo, allontanato, in un primo momento, dalle urla dei vicini di casa. L’assassino, però, tornò poco dopo sul luogo del delitto per sferrare il definitivo colpo di grazia alla giovane, la quale giaceva già a terra agonizzante. In merito a ciò, il risvolto maggiormente inquietante della vicenda riguarda il fatto che si stimò che ben 38 persone assistettero all’aggressione ma, nonostante il killer impiegò più di mezz’ora per uccidere la vittima, nessuna di esse intervenne in soccorso di quest’ultima.
Tale triste evento, come accennato sopra, destò molta curiosità tra gli psicologi, i quali vollero capire se il mancato intervento del vicinato rappresentasse un caso isolato oppure se ciò rientrasse in uno schema comportamentale che si ripete sempre uguale. La risposta a tale quesito arrivò quattro anni dopo l’omicidio, in virtù di un esperimento condotto da John Darley e Bibb Latané: coloro i quali conieranno il termine “effetto spettatore“.
I due psicologi sociali decisero di rappresentare una situazione molto simile a quella dell’assassinio di Kitty in cui, per l’appunto, vi era una donna in pericolo. I risultati ottenuti furono a dir poco stupefacenti: il 70% dei soggetti che assistevano da soli alla scena interveniva emettendo urla o avvicinandosi alla donna mentre, alla presenza di altri spettatori nella stanza, solo il 40% si faceva avanti.
Ciò si verifica perché, quando vi sono più persone sulla scena, il singolo individuo percepisce un grado di responsabilità molto più basso rispetto al caso in cui fosse l’unico presente. Egli potrebbe infatti pensare che ci siano persone più adatte di lui a intervenire, magari più “forti” e meno spaventate. Inoltre, entrano in gioco altre tre variabili: vi è un legame di qualsiasi tipo tra vittima e spettatore? La stessa è considerata meritevole d’aiuto? Lo spettatore è effettivamente in grado di aiutare?
Lo studio rivoluzionario di Darley e Latané si diffuse rapidamente, tuttavia ciò non servì ad evitare un’altra tragedia. Il giorno di Natale del 1974, infatti, un’altra ragazza fu aggredita e assassinata esattamente nel medesimo quartiere in cui, dieci anni prima, fu uccisa Kitty. Ma anche in questo caso nessuno dei vicini intervenne.
Le ricerche riguardanti l'”effetto spettatore” continuarono nel corso del tempo tant’é che, nel 2011, uno studio pubblicato dall’American Psychologist Association propose una nuova chiave di lettura del fenomeno, prendendo in considerazione molti altri fattori e non solo unicamente il numero di spettatori presenti ad un determinato evento.
In tal senso, lo studio, mediante alcuni esperimenti, mostrò come le persone siano più inclini ad agire quando la situazione appare grave, ad esempio se il malcapitato è ferito. Insomma: maggiore è l’emergenza, maggiore sarà lo stimolo che percepiremo ad agire. Agire rimane comunque rischioso, in quanto potremmo ferirci a nostra volta, tuttavia il pensiero di un’eventuale ricompensa – ricevere complimenti e aumento dell’autostima – potrebbe darci coraggio.
Infine, lo studio rivelò come, nel momento in cui un soggetto compie il primo passo per soccorrere una vittima, è più probabile che anche gli altri individui presenti sulla scena intervengano. Ciò però, nel corso dell’esperimento, si verificava solamente quando gli spettatori erano tutti individui maschi e non estranei fra loro. Spesso, inoltre, gli stessi non si rendevano immediatamente conto del pericolo. Il loro iniziale mancato intervento non celava dunque una carenza di coraggio o paura, bensì si trattava perlopiù di ingenuità.
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